III

LE OPERE MINORI: LE LIRICHE LATINE E ITALIANE

Se le lettere si situano su di un piano intermedio tra vita e poesia, le opere minori si collocano senz’altro su di un piano nettamente artistico. Si chiamano tradizionalmente e giustamente «opere minori» pensando all’Orlando Furioso, capolavoro e mèta suprema dell’attività poetica ariostesca, ma sarebbe grave errore svalutarle o ridurle a un significato del tutto marginale perdendo cosí la loro effettiva importanza. Importanza specifica in quanto a volte esse raggiungono risultati artistici notevoli: importanza storica in quanto raccordano piú facilmente la esperienza artistica ariostesca alle offerte, alle direzioni concrete della cultura letteraria del suo tempo, in un cerchio che ha al suo centro la piú precisa situazione letteraria ferrarese e che si amplia verso le condizioni piú generali della letteratura italiana a cavallo fra Umanesimo e Rinascimento.

Ben chiaro è, in tal senso complesso, il caso dell’attività lirica ariostesca, che si prolunga e si scandisce lungo tutta la vita di letterato dell’Ariosto costituendone prima, con le liriche latine, la zona piú giovanile e formativa, poi, con quelle italiane, la base piú ravvicinata alla genesi del Furioso e l’accompagnamento dello sviluppo del poema attraverso le varie redazioni.

Se nel periodo studentesco, stando alle notizie dei primi biografi e specialmente del figlio Virginio, l’Ariosto dové alternare la composizione di poesie latine a quella di perdute «baje» in volgare, secondo l’uso goliardico ferrarese di celebrare scherzosamente gli incidenti e gli avvenimenti della vita studentesca e cittadina (sicché in un passo della Satira IV l’Ariosto potrà ricordare un periodo della sua lieta vita giovanile quando componeva «in piú d’una lingua e in piú d’un stile» «iocunda rima o metro»: cioè versi in italiano e in latino), appare molto verosimile la nota tesi del Carducci, specie nella sua formulazione piú cauta, secondo cui l’Ariosto nella sua gioventú scrisse «se non solamente in latino certo piú spesso e meglio in latino che non in italiano»[1].

Piú spesso e meglio. E infatti non par dubbio che, nel decennio fra il 1494 e il 1504 circa, il giovane artista si sia applicato prevalentemente alla composizione di poesie latine, seguendo il forte impulso umanistico della società letteraria ferrarese e svolgendo in quella sua prima attività artistica una specie di «apprendistato» tecnico, valido per tutta la sua prima formazione artistica, importante per le copiose letture dei classici latini[2] che quella implicava e che risulteranno cosí fruttuose nel Furioso: letture che dalla conoscenza approfondita dei lirici ed elegiaci-erotici si allargavano a quella dei comici, satirici ed epici latini, e che risulteranno cosí fruttuose come suggerimento di trame, di episodi, di miti e favole e persino di impostazione di personaggi e di paragoni e immagini, e come rafforzamento del linguaggio poetico nella sua salda sintassi, nella sua precisione e ricchezza aggettivale, sia nelle liriche sia nelle commedie, sia nelle satire sia nello stesso poema, come avremo ancora modo di notare piú tardi.

Ma soprattutto l’esercizio delle liriche latine va considerato, ripeto, nel suo valore di un iniziale noviziato e apprendistato tecnico e stilistico, che va da esercitazioni piú chiaramente scolastiche a prodotti piú originali e maturi nella direzione di una ricerca di capacità e abilità tecnica, di apprendimento a dar forma a intuizioni e sentimenti, non necessariamente profondi ed interni, sulle orme e sull’esempio di lirici ed elegiaci latini: Ovidio, Catullo, Tibullo, Properzio, Orazio (con una maggiore attenzione alle misure catulliane e properziane).

Del resto la fede nell’essenziale importanza «de li latini miei» come base di ogni moderna letteratura è fondamentale nella poetica ariostesca, cosí come il dar «forma», la capacità di esprimere con dignità e proprietà stilistica sentimenti ed idee, venne sentita dall’Ariosto come elemento superiore e decisivo di individuazione della stessa propria personalità, tanto da fargli riconoscere all’insegnamento di Gregorio da Spoleto, il suo maestro già ricordato di letteratura latina, la virtú di averlo ridotto da cosa informe ed inutile a «gentile figura», dandogli l’«anima» laddove il padre gli aveva dato la sola esistenza.

Questo carattere di esercizio espressivo nella lingua latina – e cioè in una lingua chiaramente letteraria e perciò tanto piú adatta a provarvi e affermarvi qualità tecniche acquisite con lo studio e con uno sforzo iniziale, ben lontano dalla foga spontanea di una confessione incontrollata e facile – è ben confermato da alcuni di questi componimenti latini, che appaiono situati all’inizio di un tirocinio artistico certo anzitutto piú preoccupato del progressivo possesso di un’abilità stilistica che non della profondità e sincerità degli argomenti e dei sentimenti svolti.

Cosí il giovane Ariosto potrà addirittura utilizzare un epitafio per la tomba del padre riprendendolo e variandolo lievemente per un epitafio dedicato alla memoria di una immaginaria donna scomparsa (diceva cosí nell’Epitafio X:

donec, decurso spatio vitae, ossibus ossa

aeternum at animam miscuerint animae,

e nell’XI varia con gusto piú simmetrico e conclusivo:

donec, decurso spatio vitae, ossibus ossa

miscuerit charis atque animas animis)

o potrà disinvoltamente cambiare l’impostazione di una ode Ad Philiroën, evidentemente incurante della sincerità e univocità del sentimento e della prospettiva tematica e solo intento alla riuscita formale, al perfezionamento del giro sintattico e metrico, alla prova tecnica tentata; quasi con una esasperata indifferenza al soggetto trattato e considerato solo come materia suscettibile di diverse versioni in funzione di un esercizio stilistico.

O si rilegga la doppia stesura di questo leggiadro epigramma erotico nella direzione di una cura di stile sempre piú dolcemente gustoso e concettoso e insieme chiaro e preciso:

Hasne rosas, an te vendes, an utrumque, puella,

quae rosa es, atque inquis vendere velle rosas?

(XXXIII)

Vendere velle rosas, inquis, cum sis rosa; quaero

tene, rosasne velis, virgo, an utrumque dare.

(XXXIV)

E in generale, anche nei componimenti piú maturi e piú collegati con una tematica che ha pure riferimenti con elementi ed affetti dell’esperienza vitale del giovane artista (i primi amori, oscillanti tra esiti di desiderio appagato e di delusione per l’infedeltà femminile, gli affettuosi rapporti di amicizia con dotti e cari maestri e compagni di lieta vita giovanile, il piacere dei paesaggi villerecci, le occasioni di feste e avvenimenti della corte estense), prevale la forte preoccupazione letteraria, l’intenzione di misurarsi con i modelli dei classici, di ricavare da questo contatto e da questa emulazione una propria capacità espressiva attentamente ricercata, sin nell’accordo aggettivo-sostantivo o nel ritmo del discorso poetico.

E tuttavia (sia ben chiaro a indicare sin da questo periodo la natura profondamente «poetica» dell’Ariosto) questi componimenti pur rivelano, entro il loro prevalente intento letterario-stilistico, aspetti della vita giovanile ariostesca intonata soprattutto a un vivace gusto edonistico, fra malizia bonaria e sensualità calda e preziosa, a un senso prevalente di gioia vitale, a una lieta disponibilità dell’animo a godere della varietà delle offerte della natura e della società. Cosí, mentre costituiscono una prima base di quella formidabile esperienza artistica che sostiene e accompagna la costruzione dello stesso capolavoro poetico del Furioso, ci avvicinano, pur in forma piú letteraria e indiretta, all’intenso sentimento vitale dell’Ariosto nella sua prima e piú lieta manifestazione, e alle radici, in quello, di disposizioni ironiche, nostalgiche, gentili, nobili, rafforzate e affinate dal contatto con la scuola di «humanitas» dei classici latini.

Ma certo piú sostanziosa e ricca di risultati esteticamente apprezzabili appare l’attività ariostesca nell’ambito della lirica in italiano: attività che, come ho già detto (malgrado le perdute «baje» e l’elegia in morte di Eleonora d’Este del 1493 di discussa autenticità[3]), si inizia da date cronologicamente piú tarde rispetto all’attività in latino, e quindi in una maggiore maturità dell’uomo e dell’artista, che si avvaleva dello stesso primo tirocinio in latino e, con quella sua prima diretta assimilazione di temi e toni degli erotici latini, confortava la sua naturale tendenza a ravvivare la tematica amorosa, prevalente nelle stesse liriche volgari, di un piú intenso calore di lieta sensualità.

Infatti, accogliendo le offerte e gli stimoli della lirica di fine Quattrocento (fra il piú schietto gusto coloristico e psicologico del Boiardo lirico e le forme piú concettistiche e madrigalistiche dei lirici cortigiani e specialmente del ferrarese Tebaldeo) e poi accettando, con larghissimo margine di libertà, la lezione di piú preciso petrarchismo del Bembo (da lui personalmente conosciuto durante le dimore ferraresi di quello nel 1498-1499 e nel 1502-1503), l’Ariosto lirico puntò quasi esclusivamente sull’espressione di un sentimento amoroso, gentile, educato, ma insieme francamente sensuale, terreno, antiascetico, sostanzialmente lontano dai toni piú univocamente neoplatonici e spiritualistici prevalenti in tanta lirica petrarchistica cinquecentesca e non assente in certe retoriche parlate del Furioso, specie nei lamenti decorosi e prolissi di Bradamante priva del suo innamorato Ruggiero.

Solo in qualche caso (come nelle Canzoni II, IV e V) l’Ariosto aderisce piú passivamente al tono solenne e severamente idealistico del piú preciso petrarchismo neoplatonico, che pur ebbe chiara importanza nella sua formazione spirituale e poetica.

La sua esperienza lirica si svolge centralmente in una direzione tanto piú schietta e originale che fonde agevolmente una subordinata, anche se non insignificante, spinta petrarchistica idealizzante con una prevalente sensibilità calda e tenera, con un gusto sottilmente edonistico e sensuale, con un’ariosa capacità di rapidi richiami paesistici e naturali, in un discorso poetico che, pur riuscendo a volte a conchiudersi nel giro piú breve del sonetto o del madrigale, tende piú originalmente a svolgersi in misure piú ampie e libere che han qualche rapporto con la forma poetico-discorsiva delle Satire.

Si tratta di quei Capitoli in terzine, in cui l’originalità lirica dell’Ariosto meglio si manifesta sull’appoggio di un ritmo lirico-narrativo particolarmente adatto allo sviluppo pieno di affetti e di scene amorose svarianti tra rappresentazioni mosse e vivaci di intensi momenti di appagamento amoroso, di esplosioni edonistiche e sensuali, ma mai volgari e bassamente lascive, e piú sottili e raffinate esaltazioni di un amore nobile e gentile, ma mai privato della sua naturale radice sensuale.

Sarà, nella prima redazione, il caso del celebre Capitolo VIII, in cui il tema dell’amore sensuale viene svolto ed elevato sino a questa finissima e sensibilissima immagine, che si avvale in maniera superiore e ben fusa di un procedimento concettoso e di un paragone della bellezza della donna con quella di una rosa, per tradurre la letizia amorosa in un sorriso limpido e sereno:

mirar le ciglia e l’aurei crespi crini,

mirar le rose in su le labra sparse,

porvi la bocca e non temer de’ spini [...].

(vv. 46-48)

O, nella seconda, sarà il caso del Capitolo XI che esalta la bellezza di Firenze pur dichiarandola (con un lieve schema concettistico) insufficiente a rasserenare il cuore del poeta perché lontano dalla sua donna, e che intesse mirabilmente le immagini del sereno paesaggio con i pensieri di un amore appassionato e nobile fino a raggiungere, nel finale largo e sognante, l’esito conclusivo di una limpida immagine che pare il simbolo realizzato di una poesia raffinata ed elevata e pure insieme concreta e sensibile, di un alito caldo di desiderio esalato in un limpido sogno incantato e soave:

Oltr’a que’ monti, a ripa l’onda vaga

del re de’ fiumi, in bianca e pura stola,

cantando ferma il sol la bella maga

che con sua vista può sanarmi sola.

(vv. 73-76)

O si rilegga il Capitolo V, scritto nella piena maturità e in occasione della forzata partenza per la Garfagnana e quindi del doloroso abbandono della donna amata, in cui le risorse del realismo e della fantasia, del nobile patetismo idealizzante e petrarchistico e della calda sensibilità di un amore concreto ed intenso, alternano momenti piú appassionanti e risentiti (che fanno ripensare a modi vicini delle Satire) con momenti siglati da una piú ricercata eleganza e concettosità, per risolversi in un prevalente ritmo di canto sensibile e brillante, dignitosamente sereno, che trova un’incantevole punta suprema di eleganza e di sottile sensualità al centro di questi versi destinati a paragonare il viaggio che allontana il poeta dalla donna con un ipotetico viaggio di ritorno in cui la mèta desiderata abolirebbe ogni scomodità e fatica:

ché, se a Madonna io m’appressassi quanto

me ne dilungo, e fusse speme al fine

del mio camin poi rispirarle a canto;

e le man bianche piú che fresche brine

baciarle, e insieme questi avidi lumi

pascer de le bellezze alme e divine,

poco il mal tempo, e loti e sassi e fiumi

mi darian noia [...].

(V, vv. 37-44)

Se i Capitoli in complesso appaiono come la sezione piú rilevante e originale delle liriche ariostesche, non si può trascurare neppure l’importanza della piú melodica esperienza dei Madrigali[4] o di quella di maggior concisione e misura di certi sonetti in cui una piú forte presenza dei modelli petrarcheschi (fino alla ripresa di interi versi del Canzoniere come nel caso del primo verso della prima quartina del Sonetto XVII) rafforza gli elementi di eleganza e di idealizzazione della lirica ariostesca senza scompagnarli da un senso piú liberamente e concretamente fantastico-realistico, essenziale alla poesia dell’Ariosto anche quando essa tende di piú al platonismo e all’omaggio spirituale-amoroso, e ne ricava cosí una leggerezza aerea e sensibile che prelude alla grande poesia del poema:

Occhi miei belli, mentre ch’i’ vi miro,

per dolcezza inefabil ch’io ne sento,

vola, come falcon ch’ha seco il vento,

la memoria da me d’ogni martíro [...].

(XVII, vv. 1-4)


1 Nel suo saggio La gioventú di Ludovico Ariosto e la poesia latina in Ferrara, in G. Carducci, Opere, ed. naz., Bologna, Zanichelli, vol. XIII, pp. 115-374.

2 Il greco fu invece ignorato dall’Ariosto (cfr. Satira VI, vv. 178-180), che rimpianse tale grossa lacuna della sua formazione umanistica, colmata però in parte dalla lettura dei classici greci in versione latina, come nel caso della poesia omerica tanto spesso presente e suggestiva del Furioso.

3 Si vedano in proposito M. Catalano, Vita di Ludovico Ariosto cit., vol. I, pp. 129 ss., e G. Fatini, La fortuna e l’autenticità delle liriche di Ludovico Ariosto, «Supplemento» 22-23 del «Giornale storico della letteratura italiana», 1924.

4 Si rilegga almeno il Madrigale VIII.